Giovanni Merlo ci presenta l'intervento di Roberto Franchini - Responsabile Area Strategia, sviluppo e formazione, Opera Don Orione - alla conferenza del progetto ProgettaMI.
Ogni operatore ha, tra i suoi compiti principali, quello di mettere a punto il progetto individuale sulla persona con disabilità. Se a prima vista non c’è nulla da dire al riguardo (il progetto individuale è persino una conquista nei nostri servizi), in realtà, a ben guardare, sotto questa dinamica professionale c’è un paradosso antropologico, che deve farci riflettere. Quale adulto desidererebbe che qualcun altro avesse il potere di progettare la propria vita, decidendo ad esempio quale cibo è salutare per lui, quali relazioni e quali attività condurre nella vita quotidiana?
Dobbiamo rinunciare alla progettazione individuale, lasciando che ognuno si progetti da sé? Naturalmente questo non è possibile. Gli operatori devono costruire il progetto di vita sulla persona con disabilità, sentendo anche i suoi familiari e la persona con disabilità. Poiché queste persone, per diversi motivi, non sono pienamente in grado di progettarsi da sole, gli operatori hanno il potere di progettare la vita della persona con disabilità. Perché questo potere non degeneri in arbitrio, occorre che si senta la terribile responsabilità che si ha nel progettare la vita di altri: occorre possedere dei principi personalistici forti, nella consapevolezza che nei progetti la persona deve essere messa al centro.
Tuttavia sappiamo che non è sempre vero che nel progetto la persona è al centro. Conosciamo il rischio che il progetto si traduca nel posizionare la persona dentro le pianificazioni professionali. Esistono infatti alcuni operatori che sono innamorati del cosiddetto planning: martedì pomeriggio il laboratorio della narrazione del sé, il mercoledì mattina la sabbia-terapia, il giovedì le attività teatrali...
Consideriamo anche la normativa lombarda sull’appropriatezza. Nel fascicolo sociosanitario ciò che importa è la rispondenza tra il tipo di obiettivo e il tipo di intervento stabilito, i minuti degli operatori e la professionalità adeguata a quel tipo di intervento. Nel diario, poi, deve essere registrato il tipo di intervento o le motivazioni che ci hanno portato a fare...
Il rischio è che la centralità della persona sia uno slogan, una considerazione vuota. Per evitare questo, occorre avere non solo dei principi etici, ma anche una metodologia intelligente, complessa, veramente orientata ai valori e alle aspettative della persona disabile. Infatti, la normativa ci orienta a standardizzare, non a personalizzare.
Ma il rischio è anche quello di dare la colpa al legislatore, o alle vigilanze pubbliche, mentre in realtà la standardizzazione rischia di piacerci. Le regole rendono il nostro lavoro estremamente semplice, mentre invece progettare sul serio è complesso. Osservare una regola è sicuro e lineare, mentre aver cura del progetto di vita richiede un pensiero lento e divergente.
La trappola del paradigma "problema-soluzione"
Il paradigma è un modo abituale, dentro ad una comunità di riferimento, di pianificare, agire, persino pensare in modo semiautomatico. Cambiare i paradigmi è difficilissimo, perché ci si vive dentro. I servizi alla persona sono normalmente dentro ad un paradigma che può essere definito “problema-soluzione”. Questo è il vero sfuggente nemico, e non le regole o la normativa, che ne sono in qualche modo una esplicitazione.
Come funziona il paradigma problema - soluzione? I professionisti hanno il compito di individuare i problemi della persona disabile attraverso la valutazione multidimensionale: una serie di strumenti clinici e di scale misurano i problemi di funzionamento della persona con disabilita’, e sulla base di questi si pianificano gli interventi. Ad esempio, se la scala Tinetti ha un punteggio basso occorre la fisioterapia oppure se il Mini-Mental è basso, occorre un laboratorio cognitivo: tutto questo senza chiedersi se questi interventi hanno uno scenario esistenziale, se e a cosa servano realmente. Molte volte gli operatori lavorano in senso riabilitativo su singole skill senza avere presente lo scenario esistenziale.
Certamente questo paradigma, come quello clinico, non è di per sè malvagio, però è un paradigma incompleto e gerarchicamente ribaltato, che non tiene conto dei valori e delle aspettative delle persone, mentre in realtà solo a partire da questi è possibile capire che cosa sia davvero un problema e che cosa invece non lo sia.
Per fare un esempio, un adulto va da un fisioterapista non perché questo sia il senso della sua vita, ma perché quell’intervento gli serve per camminare, ballare e giocare; inoltre, non ci andrà tre volte alla settimana per 30 anni (a carico dello Stato), ma ci andrà per un tempo limitato, per poi dedicarsi alla vita. In tempo di crisi bisogna considerare come il paradigma problema - soluzione è un paradigma costoso, che moltiplica i bisogni. Infatti, esso asseconda una possibile deviazione professionale, che consiste nel sopravvalutare i problemi della persona con disabilità, perché in essi è il focus dell'intervento. Si pensi ad esempio alla tendenza ad imporre la dieta alla persona con disabilità: come sempre, la dieta è di per sé una cosa positiva, così come gli altri interventi. Da tutto ciò viene fuori il “progetto senza persona”, che è fatto di dieta ipocalorica, fisioterapia e laboratori manuali per il mantenimento della motricità fine, e avanti di questo segno.
Alcuni sintomi del fatto che una organizzazione, qualunque essa sia, è dentro questo paradigma sono:
- Nelle logiche istituzionali: si lavora per procedure, e ciò che nel quotidiano conta è la temperatura del carrello prevista dal manuale HACCP, e non l’autodeterminazione nel cibo; la procedura sull’idratazione, e non la disponibilità di bevande fresche in un frigorifero accessibile a tutti. Idratazione, alimentazione, movimentazione … questo e' un linguaggio terrificante, simbolo efficace del paradigma. Questo vocabolario non è imposto dalle norme, ma viene dalle scuole professionali, dai linguaggi di settore, accuratamente scelti per difendere il prestigio del proprio titolo.
- I pallini professionali. Se un educatore è un grande sportivo tutti i disabili fanno psicomotricità, se ad un altro piace la musica tutti i disabili fanno musicoterapia. Dov’è la persona in tutto questo?
- Lo strumento del planning, o del piano di lavoro. Nei centri diurni e nelle residenze si assiste spesso alla programmazione di settimane rigide e senza tempo libero, quasi ad insegnare alle persone con disabilità a non scegliere, a non sapere gestire il tempo libero. Si parla di autodeterminazione, ma la settimana è piena, e si provi a dire ad un educatore di rinunciare alla propria attività: dirà di "no, perché é importante, fa bene alla persona, perché risponde a questo o a quest’altro obiettivo", sempre in termini di abilità e non di scelte.
Orientarsi verso il paradigma esistenziale
Occorre entrare in un altro paradigma, che potrebbe essere definito paradigma esistenziale, al fine di poter affermare che il progetto di vita non è retorica ma un qualcosa di vero e sostanziale.
Oggi la qualità di vita può non essere più una predica da Carta dei Servizi, ma un costrutto misurabile, vero obiettivo dei progetti individuali.
Cambia il paradigma, cambiano gli strumenti. Se nella progettazione clinica lo strumento principale era la diagnosi, se nella progettazione funzionale lo strumento era la valutazione multidimensionale, nella progettazione di vita lo strumento chiave è l'intervista alla persona con disabilità, e/o, se essa non ha voce, il suo prossimo, il suo portatore di interesse. L’intervista rileva valori, aspettative e desideri della persona nei cosiddetti "domini di qualità di vita", ovvero ambiti esistenziali importanti per ogni uomo, come le relazioni, l’inclusione, l’autodeterminazione e lo sviluppo personale. Esistono oramai numerosi modelli di progettazione e misurazione di qualità di vita, come ad esempio il modello Schalock e Verdugo Alonso, oppure il modello Brown, oppure ancora il modello a tre fattori di Gardner.
Per capire di cosa si sta parlando occorre considerare lo strumento della cartella personale: in essa, normalmente, quando si arriva all'area del progetto individuale si trovano le aree professionali: area clinica, area motoria, area cognitiva, e così via. Compito di ogni operatore é annotare il proprio intervento nell’area corrispondente, secondo la logica problema-soluzione, e alla fine il progetto risulta dalla somma di interventi professionali, e non dalla persona. Occorre invece pensare ad una scheda progetto articolata nei domini di qualità di vita, nella quale annotare gli obiettivi come risultante non solo della valutazione multidimensionale, ma anche e soprattutto dall’intervista. Allora le equipe di lavoro ogni volta che faranno il progetto si chiederanno: è possibile aumentare l'autodeterminazione di Giovanni, la sua inclusione?
Solo in seguito scopriranno che esistono alcuni problemi, che sono di ostacolo nel perseguire gli obiettivi di qualità. Ad esempio, un problema motorio può essere di ostacolo all’autodeterminazione. Pertanto, l’intervento del fisioterapista si manifesta nella sua essenza più pura e autentica, ovvero come strumento (non come fine) per una progettazione esistenziale. In questo modo, raggiungiamo un nuovo equilibrio tra regole e progetto, tra procedure e persona. I protocolli, le procedure, i piani di lavoro sono lo scheletro di una organizzazione, mentre il progetto è il cervello, è il cuore di una organizzazione. A volte il progetto individuale chiederà di andare oltre la regola: in questo caso, dovremo trasgredire a viso alto, per qualcosa di più alto e non di più basso, trasgredire insieme alle vigilanze, non contro le vigilanze. Trasgredire insieme ai nostri interlocutori entrando pienamente in questo scenario.
Ridare valore alle comunità
Infine, in tempo di crisi occorre smetterla di pensare che il progetto consista in una serie di servizi professionali. Esistono anche i sostegni informali. Solo così si trova la chiave per dare sostanza al cosiddetto welfare community. Il welfare state ha sottratto alle comunità locali il senso di solidarietà tra uomini. Il progetto di vita della persone con disabilità non è del Centro Diurno, ma è della Comunità. Le équipe di lavoro devono tornare a progettare il contributo delle reti informali dentro i progetti individuali. Su questo tema occorre aiutare il legislatore a non marginalizzare il volontariato come una sorta di accessorio, oppure stringerlo nelle secche di requisiti impossibili. Se un’organizzazione utilizza un mix progettuale e ordinato di professionisti e volontari potrebbe costare di meno, e al contempo mantenere un rapporto vitale con il territorio e le solidarietà primarie. Tutto questo per moltiplicare i servizi non per indebolirli, perchè lo stato deve "spendere uguale", ma quell'uguale diventa moltiplicativo. Questa crisi ci aiuta (ci costringe) in sostanza a mettere in atto un profondo ripensamento dei paradigmi e dei modelli.
Il presente articolo è stato pubblicato contemporaneamente su LombardiaSociale