Giovanni Merlo analizza come dalle Linee di indirizzo per la programmazione sociale locale, approvate dalla Giunta Regionale, emerga l’intenzione di superare la frammentazione del welfare sociale lombardo.
Le affermazioni ed indicazioni contenute nel documento "Un welfare che crea valore per le persone, le famiglie e la Comunità - Linee di indirizzo per la programmazione a livello locale 2015 - 2017" confermano alcune linee di tendenza promossa dall'attuale Giunta Regionale in tema di politica sociale. Uno delle caratteristiche del cosiddetto modello di welfare lombardo, consiste nella rigida separazione di responsabilità, risorse e quindi di azioni tra il livello regionale e quello locale. L'intero documento di programmazione insiste invece sul sostegno alla migliore relazione ed integrazione tra Regione - ASL e Comuni, certificando con chiarezza la discontinuità con il modello di relazione tra queste istituzioni costruito a partire dagli anni 2000. Le analisi e le riflessioni di tutta la prima parte del documento (Premessa e Una lettura delle politiche di welfare locale) possono essere lette come una netta presa di distanza dal modello di welfare sociale regionale consolidato. Una critica che può apparire ancora più radicale perchè effettuata non a partire da considerazioni di tipo ideologico, ma piuttosto dall'analisi degli esiti negativi del sistema sociale regionale.
Le parole utilizzate non si prestano ad equivoci: frammentazione, non appropriatezza, riproduzione dei servizi esistenti, selezione degli utenti non equa, duplicazioni, sprechi, investimenti non efficaci, scarsa conoscenza diffusa del sistema di welfare.... Vengono quindi ribaditi in modo molto esplicito i criteri di fondo della programmazione regionale, già proposti nelle precedenti delibere, a partire dalla Dgr 116/2013, "passando da un sistema centrato sull'erogazione ad un sistema che risponda ai bisogni di ascolto, cura, sostegno e presa in carico" perseguendo la "prossimità dei servizi, centralità della presa in carico integrata e continuità assistenziale".
La "Libertà di scelta" e la "Concorrenza fra enti gestori" da pilastri del sistema vengono derubricati al più a strumenti, modalità di regolazione del sistema delle Unità di offerta. In questo contesto non stupisce la ripresa della centralità della programmazione e dell'azione pubblica. Dei quattro punti che riassumono le "macro-finalità delle programmazione pubblica" (appropriatezza delle risposte, integrazione tra ASL e Enti locali, conoscenze a sostegno della programmazione e supporto alle azioni di ASL e Comuni ed alle Cabine di regia) ben tre riguardano l'attività programmatoria e non l'erogazione di prestazioni.
Questo documento, che da il via alla percorso che porterà ai nuovi "Piani di zona sociali", apre anche spazi di lavoro destinati ad ampliare i confini della stessa programmazione sociale indicando con chiarezza (pur senza indicazioni prescrittive) che "gli interventi siano condotti con un orientamento ad integrare differenti aree di policy, in particolare: casa, lavoro, sanità, scuola." L'allargamento della visione sociale si estende oltre ai confini delle strette competenze istituzionali "promuovendo l'attivazione di tutte le risorse disponibili nelle persone, nelle famiglie e nella Comunità".
Una delle parole chiave, attorno a cui si chiede a Comuni ed Asl di orientare la programmazione sociale, è quindi "ricomposizione" di ciò che, evidentemente, è stato in passato "scomposto".
Ricomposizione delle conoscenze, dei servizi e quindi dei percorsi dei cittadini-utenti all'interno del sistema dei servizi. Una indicazione che da politica e culturale diviene molto concreta con la previsione di un sistema di incentivi economici a favore dei territori più "integrati" e con la conferma ed estensione delle competenze delle "Cabine di regia", sorte a livello locale come strumento di governance delle politiche sociali.
L'origine delle resistenze ed una domanda per il cambiamento
La lettura del documento di programmazione sembra mettere molto vento nelle vele del cambiamento del welfare sociale regionale, in quella direzione da tempo auspicata da un'ampia parte del mondo della disabilità. Un cambiamento da tempo annunciato che stenta, per il momento, a tradursi in realtà nella vita delle persone ma anche nell'impostazione delle politiche e nell'organizzazione dei servizi. Una resistenza che sarebbe ingeneroso attribuire alla (sola) inerzia di quegli attori che questo cambiamento dovrebbero poi implementare. La domanda che, per ora, non viene posta e che potrebbe generare un processo di riforma reale è in fondo semplice: "A cosa servono i servizi in favore delle persone con disabilità?"
Non è una domanda né retorica né teorica. Infatti la "resistenza al cambiamento" affonda le sue radici nell'estrema efficienza dimostrata dal modello di welfare sociale lombardo costruito negli ultimi 12 anni: anni in cui abbiamo avuto più risposte, ovvero un numero maggiore di servizi, una varietà maggiore di tipologie di unità di offerta ed un numero molto alto di persone con disabilità che vi accedono. Un sistema efficiente nel garantire l'assistenza e la custodia in particolare alle cosiddette persone con grave e gravissima disabilità" cioè di persone che richiedono maggior sostegno. Perché allora dovremo auspicare la riforma di un sistema da considerare "di successo", perché capace di conseguire gran parte dei suoi obiettivi?
E' noto come questo sistema di risposte per le persone con disabilità fondato sulla cura sanitaria e sull'assistenza si stia rivelando fragile dal punto di vista etico (così come dichiarato negli anni dal movimento associativo) perché produce isolamento e separazione e non, come è auspicabile, inclusione sociale. Un esito che rende il sistema costoso ed insostenibile, perché rende "conveniente" la condizione di dipendenza e di bisogno, al posto di valorizzare le possibilità di integrazione ed emancipazione.
Il cambiamento se avverrà, sarà promosso dando come obiettivi al sistema complessivo dei servizi e delle politiche nei confronti della disabilità, la promozione della Vita Indipendente ed all'Inclusione nella società per tutte le persone con disabilità. Il cambiamento se avverrà, sarà tale quando vi sarà la volontà e la competenza per valorizzare e premiare chi si dimostri capace di perseguire e raggiungere (anche solo in parte) questi risultati a scapito di chi si accontenti di erogare solo dei "minuti di assistenza".
Ciò che frena il cambiamento non sono solo inerzie e modesti interessi di carattere economico, ma piuttosto la difficoltà dell'insieme del mondo dei servizi sociali di porsi la domanda "Ma a cosa servo io, per le persone con disabilità?"- Una domanda che forse non è realistico aspettarsi che sia contenuta in un documento come quello che avvia la programmazione sociale locale ma che di fatto oggi si pone di fronte ad ogni realtà attiva nel campo della disabilità.