In Lombardia la Legge Regionale 25/22 spinge il sistema di welfare sociale ad impegnarsi per rispettare il diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità
17 settembre 2019. Nel corso del convegno “LEDHA: da 40 anni voce delle persone con disabilità”, viene presentato il documento “Verso un progetto di legge per il riconoscimento per il diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale per tutte le persone con disabilità”
29 novembre 2022. Il Consiglio Regionale della Lombardia approva all’unanimità la Legge Regionale “Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente di tutte le persone con disabilità.
Quali sono le ragioni che hanno spinto LEDHA-Lega per i diritti delle persone con disabilità a presentare e sostenere l’approvazione di questa legge?
Prima di tutto la constatazione della distanza tra quanto previsto dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e le loro condizioni reali di vita, anche in Lombardia. Basti pensare a quanto appare quasi provocatoria in molte situazioni l’affermazione contenuta nell’articolo 19 che afferma il diritto a “poter scegliere dove e con chi vivere e non essere obbligate a vivere in una particolare sistemazione”. Ma la vera ragione che ha spinto LEDHA a proporre una nuova Legge è che l’attuale modello di welfare sociale, sia nazionale sia regionale, non ha certo come obiettivo il rispetto dell’autodeterminazione e della partecipazione alla vita delle società delle persone con disabilità.
In estrema sintesi il nostro attuale modello di welfare sociale per la disabilità prevede di garantire “assistenza e cura” per favorire la permanenza a domicilio, che viene sovrapposto a quello dei familiari che si occupano della sua assistenza. Questo è quanto si intende garantire, sia che si parli di erogazioni monetarie sia di servizi domiciliari o diurni. Il ricorso ai servizi residenziali, che si dichiara in diversi atti di volere contrastare o quantomeno ritardare, è previsto, esplicitamente nei regolamenti comunali di accesso ai servizi, quando la persona risulta essere priva del sostegno familiare.
Questi sono gli obiettivi normativi ma rappresentano anche il mandato sociale che viene affidato al sistema dei servizi. Infatti, “fa notizia” la persona con disabilità che vive in condizioni di abbandono mentre è considerato normale e accettabile -al limite un po’ triste- il fatto che una persona con disabilità di cinquant’anni viva assistito dai suoi familiari quasi ottantenni.
La visione ancora presente e persistente è quella della persona con disabilità come una persona malata e, quindi, da assistere e da curare. L’approvazione della Convenzione Onu è stata saluta come un “cambio di paradigma” nel mondo della disabilità. Un cambiamento affermato ma ancora ben lontano da essere assimilato dalla società così come dagli addetti ai lavori che compongono e realizzano ogni giorno il modello di welfare sociale, ovvero da quell’insieme di sostegni di carattere sociale, socioassistenziale e sociosanitario offerti alle persone con disabilità e alle loro famiglie.
Avevamo bisogno di una legge che spronasse tutti questi attori, mentre si occupano di assistenza e di cura, a garantire il rispetto complessivo dei diritti umani delle persone con disabilità di cui si occupano. Ancora oggi le non poche realtà, pubbliche e private, che si pongono questo obiettivo, lo fanno assumendosi rischi e responsabilità non indifferenti, proprio perché non sostenuti in alcun modo da indicazioni di carattere normativo. Come è già stato sperimentato, fino a quando il perseguimento dell’indipendenza e dell'inclusione sociale non altera il quadro degli interventi previsti di assistenza e della cura, della permanenza a domicilio con il proprio familiare, non si pone nessun problema. Ma quando si va mettere in discussione anche solo uno di questi elementi, banalmente per questioni di orari e calendario, allora tutto traballa.
Il primo obiettivo della legge è quindi quello di mettere chi vuole, chi può, chi sa lavorare per l'indipendenza e l'inclusione sociale delle persone con disabilità nelle condizioni di poterlo fare e, anche, di spingere verso questa meta le risorse, le competenze, il lavoro, l'impegno già presenti e attivi dentro il nostro modello di welfare.
Ma che cosa sta cambiando l’approvazione di questa norma, che ha avuto e sta continuando ad avere un cammino parallelo a quello avviato a livello nazionale con la Legge 227/2021. La Legge Regionale 25/22 della Lombardia ha un campo di applicazione ristretto, che si limita agli interventi di welfare sociale e non, ad esempio, di trasporti, accessibilità e solo marginalmente di scuola, lavoro e sanità. Nello stesso tempo è una legge che allarga l'orizzonte, volendo rispettare e promuovere la vita indipendente e l’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità.
Partiamo quindi dalla parola “tutte”: ancora oggi è infatti difficile abbinare l’aggettivo “tutte” con il sostantivo “indipendenza”, in particolare quando ci troviamo di fronte con persone con un forte bisogno di sostegno e, soprattutto, quando la menomazione e la compromissione della persona riguarda le abilità intellettive, relazione, di comunicazione e anche della elaborazione della propria volontà. Ma in realtà è la nostra idea di vita indipendente che deve modificarsi, perché continuiamo a sovrapporre l'idea di indipendenza con quella di autonomia e di autosufficienza.
Si potrebbe ragionare a lungo su cosa sia l’autonomia e la non autosufficienza, ma quello che ora è importante capire è che questi concetti non sono neanche lontani parenti con il diritto all'indipendenza. Continuiamo a confondere l'indipendenza con un set di abilità: l'indipendenza è un diritto di tutte le persone e non può avere a che fare con la diagnosi, né quindi essere verificato né tantomeno concesso, ad esempio, da una equipe di valutazione multidimensionale
L'indipendenza ha a che fare con il diritto a potere compiere le scelte necessarie per la propria vita compreso il diritto di potere decidere che cosa sia più o meno importante per la propria vita. Essere indipendenti significa essere liberi di esprimersi e di poter scegliere cosa fare della propria vita, di avere potere sulla propria esistenza. È un concetto culturale che diventa politico: il diritto di potere dire la mia sulla mia vita non può avere alcuna forma di limitazione “tecnica”.
Anche abbinare tutte (le persone con disabilità) con l’inclusione sociale risulta essere ancora un esercizio faticoso. Il sistema di welfare sociale è ancora molto concentrata sulla “risposta ai bisogni” e sul raggiungimento di un generico benessere. La dimensione dell’inclusione sociale appare “secondaria”, in qualche modo, ancora successiva: forse per questo anche in tempi recenti continuano ad esistere, svilupparsi e nascere proposte di sostegno che si basano, anche da un punto di vista organizzativo ed amministrativo, sulla separazione di singoli o gruppi di persone con disabilità dal resto della popolazione, dando per scontato che per rispondere in modo adeguato ai bisogni di alcune persone sia necessario concentrarle in alcuni luoghi. Si tratta di proposte di sostegno che vengono effettuate, a volte, anche in nome dell’inclusione. È chiaro che si tratta di una finzione: la condizione necessaria, anche se non certo sufficiente, per parlare di inclusione è infatti la convivenza, il reciproco riconoscimento e la condivisione di luoghi, esperienze e opportunità.
La Legge Regionale 25/22 della Lombardia mette in discussione gli assunti di base che, fino ad ora, hanno, nei fatti escluso, non poche persone con disabilità dal diritto a ricevere sostegni adeguati a potere vedere rispettato il proprio diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale.
Per comprendere la novità della “Legge 25”, bisogna abbandonare la questione “se” una persona possa scegliere cosa fare della propria vita e “se” possa o meno partecipare alla vita della società: dobbiamo chiederci piuttosto “come”, cioè attraverso quali sostegni, si possa garantirle il rispetto dei suoi diritti. Un cambio di prospettiva che, giustamente, può e forse deve creare spaesamento, almeno in un primo momento. In altre parole, la “Legge 25” non chiude niente, non abolisce nulla, ma mette in discussione tutto il sistema di funzionamento del welfare sociale regionale, cercando di riorganizzarlo.
Proviamo allora a ripercorrere, gli elementi di novità presenti nel testo della Legge.
Le finalità. Abbiamo già visto come le finalità vadano oltre il semplice garantire assistenza e cura che invece diventano prerequisiti per vedere garantito il diritto della vita indipendente e inclusione sociale che viene descritto con le stesse parole con cui viene descritto nell'articolo 19 della “Convenzione Onu”: il diritto a vivere nella società, il diritto a potere scegliere dove e con chi vivere, non essere obbligati a una particolare sistemazione, ad avere i sostegni, diurni, domiciliari, assistenza personale, per partecipare alla vita sociale, e il diritto a potere accedere alle strutture sociali destinate a tutta la popolazione. Il Consiglio regionale ha poi aggiunto, un’attenzione specifica al tema del lavoro, riconoscendo quindi come questa sia una questione centrale nella nostra società: si tratta di un elemento di novità, in un panorama regionale, che ha visto nel tempo le politiche attive per il lavoro venire separate da quello dell’insieme dei servizi sociali.
I destinatari. Un altro elemento di novità riguarda i destinatari. Ancora oggi i criteri prevalenti, ad esempio per l’accesso ai servizi sociali comunali, sono rappresentati dalla “gravità” e dalla “povertà” (ovvero la capacità di spesa, misurata in base all’Isee). In altre parole, la presenza di una certificazione di gravità e un Isee basso, aumenta notevolmente le probabilità di essere presi in carico rispetto alla condizione opposta.
Questo stato di cose ha creato una vasta platea di persone con disabilità che non ricevono, dal sistema di welfare sociale, sostegni significativi per la propria vita. La “Legge 25” adotta invece un approccio universalistico indicando come destinatari tutte le persone con disabilità e quindi con una invalidità superiore al 46% o con una certificazione di gravità, indipendentemente da qualunque altra caratteristica: tipologia di compromissione, livello di intensità del bisogno di sostegno, reddito e patrimonio. L’unico limite posto è quello dell’età che deve essere di almeno 14 anni o bisogna almeno frequentare le scuole secondarie di primo grado, perché questo è il momento in cui, nella nostra società, un ragazzo è chiamato a fare delle scelte personali significative. Questo è il primo grosso cambiamento. Non significa però che tutti accedono a tutte le prestazioni, si indica che quanto previsto dalla norma deve essere garantito a tutti.
E cosa prevede questa legge? Che la pietra angolare del nuovo sistema di welfare sia il “Progetto di vita”, indicato come Progetto di vita individuale, “personalizzato e partecipato” in armonia con quanto previsto dalla Legge nazionale e con un chiaro riferimento a quanto già previsto dall’articolo 14 della Legge 328/00.
Molti si chiederanno allora dove si nasconda la novità. In effetti oggi le persone con disabilità non è che non abbiano progetti. Possono anche averne più di uno, perché nel sistema attuale i “progetti individuali” servono per accedere alle risorse. Vuoi utilizzare i fondi della Legge 112/2016? Devi avere un progetto individuale. Lo stesso vale se vuoi accedere al Fondo per la non autosufficienza (Fna) e anche se sei inserito in servizi diurno o residenziale.
Quanto previsto dalla Legge è fondamentalmente differente. Il “Progetto di vita” è certamente un diritto esigibile (in continuità con quanto previsto dalla Legge 328) che ha una sua propria dignità, che è indipendente, è slegata dal semplice accesso alle risorse. Nella vita delle persone non c'è un “prima o un dopo”, ma da un punto di vista logico, il Progetto di vita viene prima dell’accesso ai servizi e alle prestazioni, e deve essere anche pensato, in un a certa misura, indipendentemente dalle risorse. Si tratta di uno strumento a disposizione delle persone, e quindi attivabile su richiesta: offre la possibilità di poter condividere con la propria comunità, i propri desideri, richieste, preferenze e quindi di poter capire in che modo si possa e si debba essere supportati per provare a raggiungere le proprie mete esistenziali.
Un processo necessario quando la possibilità di perseguire la propria vita viene ostacolato e messo in discussione dalla presenza nella società di barriere di varia natura che impediscono alle persone con disabilità di vivere nella società in condizioni di uguaglianza con gli altri. Si prevede quindi di dedicare tempo, energia e risorse specifiche alla fase di “progettazione”. Il titolare del progetto di vita è la persona con disabilità e anche questo è un elemento di novità in un sistema che spesso prevede a sua sostituzione tramite un familiare, un amministratore di sostegno, un operatore.
Non sono previste eccezioni: la partecipazione deve essere comunque assicurata. Quindi la tipologia di compromissione non può giustificare l’esclusione della persona. Anzi, maggiori sono i bisogni di sostegno maggiore sarà l'investimento di risorse necessario per tutelare questo diritto. È il Comune di residenza, in quanto rappresentante della comunità, a dover garantire questo percorso e quindi la redazione di un Progetto di vita coerente con le volontà della persona, anche coinvolgendo tutte le persone e realtà interessate.
Si tratta di un processo in cui tutte le voci devono emergere, essere ascoltate, considerate e confrontate: quella della persona, quella dei familiari, quella degli operatori … Perché un progetto di vita si fonda sui desideri e preferenze della persona ma, anche e ancora di più, sulle sue relazioni. Il fatto nuovo è che nel lavoro di trasformazione dei desideri in mete e delle mete in un Progetto, la parola determinante sia sempre quella della persona con disabilità. Si tratta di avviare e portare a compimento un rovesciamento dei rapporti di forza che oggi vedono, in caso di divergenze, soccombente la volontà della persona con disabilità, rispetto a quelle delle altre persone che formano il suo contesto di vita.
In questo percorso di conoscenza, la missione affidata alla Valutazione multidimensionale è proprio quella di fare emergere, oltre al profilo di funzionamento della persona (le condizioni e il contesto di vita) anche e soprattutto quello di metterne in evidenza gli interessi, i bisogni e i desideri. Si tratta in questo caso di abbandonare una visione ed una pratica “certificatoria” della Valutazione multidimensionale affidandole il compito, invece, di fornire alle persone e al suo Comune le informazioni e i dati necessari per la redazione di un progetto di vita coerente, realistico e realizzabile.
In questa legge appare la parola "desideri”, una scelta che ha creato molte discussioni. Si è paventato il rischio di dover fronteggiare una serie di desideri poco realistici e non realizzabili. Riconoscere i desideri è il punto di partenza. L’esperienza di molte associazioni e di molti operatori fa emergere come i desideri delle persone con disabilità non si discostino da quelli del resto della popolazione: si parla di lavoro e di casa ma anche e soprattutto di amicizia, compagnia, divertimento, di condivisione di passioni e interessi. Dare voce ai desideri è necessario per illuminare la strada per poi certamente fare i conti con le condizioni, le possibilità e le opportunità e quindi valutare e decidere quali mete cercare di raggiungere.
Il Budget di progetto rappresenta la traduzione concreta, tangibile di questo percorso. Per vivere in un certo modo e provare a raggiungere le sue mete esistenziale di quali risorse ha bisogno la persona? Si tratta di stendere un bilancio che preveda spese e risorse, mettendo in evidenza quali fra queste siano esistenti e disponibili, quali quelle da ri-orientare e anche quelle mancanti. Questo elenco comprende tutte quelle pubbliche disponibili, quelle della persona, quelle liberamente messe a disposizione dalla famiglia e anche quelle presenti e attivabili nella comunità.
Progetto di vita, valutazione multidimensionale e budget di progetto non rappresentano certo delle novità assolute: la “Legge 25” chiede a tutti gli operatori del welfare sociale l’impegno e la fatica di considerarli e implementarli in modo differente, anzi radicalmente diverso da quanto previsto fino ad ora.
La Legge poi prevede delle novità, almeno per il panorama lombardo
Come LEDHA, abbiamo deciso di accompagnare le diverse fasi di implementazione della Legge Regionale 25/22 con una campagna che abbiamo chiamato “L’inclusione si fa solo insieme”: una iniziativa che ci permette di parlare di questa norma in tutti i diversi territori di cui è formata la Lombardia attraverso incontri. focus group, seminari e convegni. Siamo infatti convinti che affidare l'implementazione di questa legge solo ai suoi, necessari, passaggi istituzionali sia un rischio che non possiamo correre. Questa legge otterrà anche solo una parte di quello che c'è scritto, a condizione che i suoi contenuti e le sue intenzioni verranno fatti propri, anche criticamente, dall’insieme delle persone che tutti i giorni creano il welfare sociale locale per le persone con disabilità, a partire dagli stessi leader delle organizzazioni rappresentative e dai responsabili e coordinatori di enti locali e di enti gestori. Siamo quindi impegnati a moltiplicare le occasioni di confronto e discussione sui contenuti e le prospettive di questa Legge. Vogliamo offrire la possibilità di modificare lo sguardo e il punto di vista di enti e persone affinché si possano rendere visibili le condizioni di vita delle persone con disabilità non solo come una condizione di aiuto e assistenza ma anche come ad una questione che interpella il rispetto dei diritti umani e della dignità intrinseca di ogni persona, e quindi anche di ogni persona con disabilità.
Giovanni Merlo, direttore LEDHA-Lega per i diritti delle persone con disabilità